Maurits Cornelis Escher Mani che si disegnano |
Lo spazio era angusto e l'odore che aleggiava era acre e
chimico. Il capannone, dopo tanti buoni propositi e tentativi svaniti nel
nulla, era stato riadattato a laboratorio fotografico seppur ancora in via di
allestimento "definitivo". Il suo progetto era partito cosi,
un po' alla buona, tanto che, all'epoca in cui aveva iniziato i
lavori di riadattamento di quel tugurio, non possedeva neanche una macchinetta
professionale. Erano trascorsi cinque anni e gli sembrava ancora ieri. Le cose
non erano cambiate di molto. O forse si. Oppure no. Lui era cambiato. Chi
poteva dirlo? Aveva bisogno di un riferimento, era cambiato rispetto a chi o
che cosa, qual’era il termine di paragone? Era possibile confrontarsi con se
stessi, considerando il sé precedente come termine di paragone di una possibile
presa di coscienza odierna? Dopotutto,
l’oscurità in cui viveva, gli aveva annebbiato anche le reti cerebrali.
Non troppo afflitto da tali vaniloqui, si accese una sigaretta. Ogni giorno
blaterava che avrebbe sistemato tutto, ma ormai quella sistemazione provvisoria
era più definitiva di qualsiasi altra cosa nella sua vita. La camera oscura era
la sua casa.
Nonostante trascorresse lì, la maggior parte del tempo, non si era mai abituato, ad evitare gli
spigoli del piano di lavoro,
-senza davvero impegnarsi a farlo-; per cui il suo corpo veniva ogni
giorno martoriato, letteralmente trivellato di lividi e non appena questi
svanivano, ne comparivano di nuovi, in altri ed improbabili posti ,dove neppure
ricordava di aver sbattuto. Spesso, aveva anche difficoltà a distinguere la
notte dal giorno, tanto era il tempo che trascorreva nel suo laboratorio. Gli
occhi invece, quelli si, che si erano abituati al colore della notte e degli
spazi mal illuminati, tuttavia nella sua goffaggine sembrava che gli stimoli
nervosi che inviava ai suoi motoneuroni non ricevessero corretta risposta e
cosi si trovava sempre ad inciampare tra una scartoffia e l'altra o ad urtare
contro il bancone per l'appunto.
Il meccanismo dello sviluppo fotografico l'aveva affascinato
sin da bambino, un processo tanto magico quanto logico, cosi aveva
riversato solitario gran parte delle domeniche della sua adolescenza a
sviluppare le foto del sabato. Viveva interamente il processo artistico della
fotografia, perché non si limitava ad individuare il soggetto artistico o
naturale che fosse, a calibrare l'obiettivo, valutare l'inquadratura, la luce e
tutte le varie angolature e sfumature, a scegliere il più congruo
background ma anche ad assistere al parto della foto, alla sua genesi ovvero
quell'epico momento in cui la pellicola estratta dal rullino della macchina
analogica abbandonava per sempre il nero a cui era stata relegata per
lasciarsi, attraverso un sofisticato ed ingegnoso processo chimico, impressionare
su una lastra Nikon. Come spesso accade a tutti i neofiti, anche lui aveva
iniziato stampando foto in bianco e nero, che avevano un sapore retrò unico e
che gli davano l'impressione di scolpire con più forza le immagini nella
memoria, quasi vivessero del chiaroscuro che le marcava. Tra un sorso al caffè,
caro compagno di lavoro e uno sguardo alla posta; spesso, senza neanche
accorgersene veramente, iniziava ad eseguire e ripetere macchinosamente la
procedura di sviluppo e fissaggio. Nell’oscurità della camera oscura, maestosa
e potente, estraeva il rullino dal suo apposito compartimento, come un bambino
che scarta un regalo, per poi avvolgerlo su una spirale ed inserirlo nella
tank, procedendo allo sviluppo vero e proprio. Poi continuava nell’operazione,
eseguendo gli schemi mentali precedentemente definiti, come un pianista che
esegue una virtuosa melodia, impeccabile, coordinando ogni nota alla successiva
con una punteggiatura dinamica e calda, unificante e mai coercitiva. Nel corso di questi esperimenti, aveva dovuto
rispolverare le basi della chimica, materia che aveva ripudiato a scuola ma che
si era rivelata più utile del previsto nella vita quotidiana. Cosi procedeva ai
bagni del rullino in soluzioni acide, passando al bagno di sviluppo. Nel rivelatore,
si realizzava il primo miracolo, e teneramente come la più candida delle amanti
si rivelava l’immagine latente attraverso la riduzione dell’alogenuro d’argento
in argento metallico nero. A questo punto, era necessario realizzare il
fissaggio, provvedendo attentamente alla rimozione degli alogenuri non colpiti
dalla luce, poi al lavaggio per eliminare i piccoli residui dei prodotti
chimici utilizzati e assicurare in questo modo la stabilità dell’immagine. Nuovamente
si provvede all'eliminazione dell’acqua in eccesso, e dopo tutti questi
passaggi la pellicola viene appesa ad asciugare su un filo con delle
mollettine, in un ambiente privo di polvere e buio, per evitare contaminazione
a causa dei materiali pancromatici della pellicola.
Non
si sarebbe mai stancato di quella routine, fatta di gesti quotidiani continui e
successivi, perché la soddisfazione che provava nel vedere il risultato di una
stampa era immensa e lo appagava completamente, si trattava di un’emozione
totalizzante. Era innamorato della fotografia. Immaginava, di aver visto posti
lontani, aveva studiato le foto che aveva sviluppato come immagini di libri di
geografia o guide turistiche e con gli occhi della mente aveva vissuto mille
vite, pur senza muoversi mai. Teneva a quelle foto, in modo quasi morboso e in
modo altrettanto morboso conservava sempre i negativi dei rullini che stampava.
Non si sentiva solo, nonostante la mancanza di un amore, si sentiva bene e le
sue foto gli bastavano. Erano figli, fratelli, amanti, una famiglia completa
insomma.
Quella
mattina, aveva un tremendo mal di testa, e come sempre quando aveva
l’emicrania, anziché riposare, raddoppiava il carico di lavoro. Dose doppia
anche di caffè e un po’ di musica per
rilassarsi come rimedio omeopatico e sciogliere la muscolatura. Non aveva un
genere musicale preferito, ascoltava tutto ciò che passavano alla radio, certo
non proprio tutto, aveva cura di sintonizzarsi su una diversa frequenza quando
la musica non era più di suo gradimento. Cosi accese la radio, cominciando a
sistemare il materiale da lavoro. All’inizio svogliatamente, ma poi con più
cura e attenzione ai particolari, iniziò
il processo artistico dello sviluppo. Si scoprì più solerte di quanto avrebbe
potuto predire, quel giorno. Doveva sviluppare le foto di un matrimonio, “I
Kontrappali”. La loro unione era l’evento dell’anno per la comunità mondana
senese, due ricche famiglie indiane che come da tradizione e convenzione
sociale, univano i loro ricchi capitali. In effetti, i Kontrappali l’avevano
corteggiato a lungo per ingaggiarlo, dapprima aveva opposto resistenza, si era
finto coinvolto in un improrogabile impegno, non amava relazionarsi in tali
circostanze, ma poi l’offerta era divenuta troppo ghiotta per arrogarsi il
lusso di rifiutarla. D’altra parte era uno dei migliori fotografi della
provincia, forse della regione, assicurava serietà, professionalità e
puntualità; e non sempre le tre qualità coincidono in un fotografo. Accettava
un solo lavoro alla volta, in modo tale da potersene occupare direttamente
durante tutte le varie fasi di produzione, dalle foto allo sviluppo alla loro
stampa.
Sotto
il lieve riflesso della luce inattinica della camera oscura, il suo viso appariva
ancora più pallido ed emaciato e si scoprì molto diverso dall'idea che aveva di
sé; si guardò allo specchio senza rimpianti. Man mano che l’immagine della
pellicola prendeva corpo, scoprì qualcosa di strano nelle foto. Erano le foto
di un matrimonio. Nell'immaginario comune, il matrimonio è un giorno felice,
l’unione socialmente riconosciuta di due anime, la formazione di una nuova
famiglia. Eppure, l’immagine dei
soggetti nella foto non era felice, quelle foto erano false. Per quanto
autentica fosse la location, l’angolazione, la luce e tutto il resto, questi
contorni svanivano davanti allo smarrimento dell’anima di fronte all'obbiettivo Ricordava che durante il servizio fotografico, aveva chiamato i
due sposi per renderli presenti, per “comporre” il loro servizio, cercando di
far sembrare naturale quella che era la mera finzione di un servizio
appositamente orchestrato; ma i suoi sforzi erano stati vani. Quella coppia di
sposini sembrava una coppia di bambole imbalsamate e prive di sentimenti. Erano
statici e infertili. I loro volti incerati e laccati, gli trasmettevano un
senso di sfarzo e aridità, di opulenza e smarrimento contemporaneamente. Costretti
a costruire un amore, sulla tomba di vecchi fuochi, nell'angoscia di essere
incapaci a trovarsi. Lui rigido nel suo smoking, ripugnato al pensiero di dover
soddisfare la sua donna, come gli antenati gli avevano insegnato a fare,
indicando le statue dei templi di Khajuraho. Lei incapace di concedersi ad un
amore, che non vuole e non ama, cerca con gli occhi lontano il giardiniere.
In
quel momento, ci fu un disturbo alla radio, che poi si sintonizzò su una nuova
frequenza: “Io scriverò”. Non conosceva quella canzone. Non suonava male però. Il
testo era disambiguo, chiaro, sincero; quasi un’esortazione a fare lo stesso, a
leggere la vita non inseguendo alcuna ricerca, ma essendo la ricerca stessa,
quella di star bene con sé stessi. Finì
di stampare le foto, il lavoro doveva essere pronto per l’indomani. Spense la
radio e riordinò i materiali; pulì con cura il bancone con l’alcol e riversò i
liquidi di sviluppo e fissaggio nelle rispettive taniche. Un’altra giornata
volgeva al termine, o iniziava dipendeva dai punti di vista, la mezzanotte è in
effetti l’inizio di un nuovo giorno.
Tutto è relativo. Magari ho interpretato male il senso delle foto del
matrimonio, si disse, anche se era certo che il suo sesto senso non
l’ingannava. Lui non era certo il tipo capace solo di chiedere come stai, lui
scriveva sul mondo e sulle sue brutture con una finestre privilegiata sul cuore
degli uomini, dalla sua camera oscura. Lui cerca un mondo diverso, dentro un
poco d’universo, sentendosi un eroe a tempo perso del suo piccolo posto nel
mondo.
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