martedì 22 gennaio 2013

Io Scriverò


Maurits Cornelis Escher  Mani che si disegnano

Lo spazio era angusto e l'odore che aleggiava era acre e chimico. Il capannone, dopo tanti buoni propositi e tentativi svaniti nel nulla, era stato riadattato a laboratorio fotografico seppur ancora in via di allestimento "definitivo". Il  suo progetto era partito cosi, un po' alla buona, tanto che, all'epoca in cui  aveva iniziato i lavori di riadattamento di quel tugurio, non possedeva neanche una macchinetta professionale. Erano trascorsi cinque anni e gli sembrava ancora ieri. Le cose non erano cambiate di molto. O forse si. Oppure no. Lui era cambiato. Chi poteva dirlo? Aveva bisogno di un riferimento, era cambiato rispetto a chi o che cosa, qual’era il termine di paragone? Era possibile confrontarsi con se stessi, considerando il sé precedente come termine di paragone di una possibile presa di coscienza odierna? Dopotutto,  l’oscurità in cui viveva, gli aveva annebbiato anche le reti cerebrali. Non troppo afflitto da tali vaniloqui, si accese una sigaretta. Ogni giorno blaterava che avrebbe sistemato tutto, ma ormai quella sistemazione provvisoria era più definitiva di qualsiasi altra cosa nella sua vita. La camera oscura era la sua casa.




Nonostante trascorresse lì, la maggior parte del  tempo, non si era mai abituato, ad evitare gli  spigoli del piano di  lavoro, -senza davvero impegnarsi a farlo-;  per cui il suo corpo veniva ogni giorno martoriato, letteralmente trivellato  di lividi e non appena questi svanivano, ne comparivano di nuovi, in altri ed improbabili posti ,dove neppure ricordava di aver sbattuto. Spesso, aveva anche difficoltà a distinguere la notte dal giorno, tanto era il tempo che trascorreva nel suo laboratorio. Gli occhi invece, quelli si, che si erano abituati al colore della notte e degli spazi mal illuminati, tuttavia nella sua goffaggine sembrava che gli stimoli nervosi che inviava ai suoi motoneuroni non ricevessero corretta risposta e cosi si trovava sempre ad inciampare tra una scartoffia e l'altra o ad urtare contro il bancone per l'appunto.  


Il meccanismo dello sviluppo fotografico l'aveva affascinato sin da bambino, un processo tanto magico quanto logico,  cosi aveva riversato solitario  gran parte delle domeniche della sua adolescenza a sviluppare le foto del sabato. Viveva interamente il processo artistico della fotografia, perché non si limitava ad individuare il soggetto artistico o naturale che fosse, a calibrare l'obiettivo, valutare l'inquadratura, la luce e tutte le varie angolature e sfumature,  a scegliere il più congruo background ma anche ad assistere al parto della foto, alla sua genesi ovvero quell'epico momento in cui la pellicola estratta dal rullino della macchina analogica abbandonava per sempre il nero a cui era stata relegata per lasciarsi, attraverso un sofisticato ed ingegnoso processo chimico, impressionare su una lastra Nikon. Come spesso accade a tutti i neofiti, anche lui aveva iniziato stampando foto in bianco e nero, che avevano un sapore retrò unico e che gli davano l'impressione di scolpire con più forza le immagini nella memoria, quasi vivessero del chiaroscuro che le marcava. Tra un sorso al caffè, caro compagno di lavoro e uno sguardo alla posta; spesso, senza neanche accorgersene veramente, iniziava ad eseguire e ripetere macchinosamente la procedura di sviluppo e fissaggio. Nell’oscurità della camera oscura, maestosa e potente, estraeva il rullino dal suo apposito compartimento, come un bambino che scarta un regalo, per poi avvolgerlo su una spirale ed inserirlo nella tank, procedendo allo sviluppo vero e proprio. Poi continuava nell’operazione, eseguendo gli schemi mentali precedentemente definiti, come un pianista che esegue una virtuosa melodia, impeccabile, coordinando ogni nota alla successiva con una punteggiatura dinamica e calda, unificante e mai coercitiva.  Nel corso di questi esperimenti, aveva dovuto rispolverare le basi della chimica, materia che aveva ripudiato a scuola ma che si era rivelata più utile del previsto nella vita quotidiana. Cosi procedeva ai bagni del rullino in soluzioni acide, passando al bagno di sviluppo. Nel rivelatore, si realizzava il primo miracolo, e teneramente come la più candida delle amanti si rivelava l’immagine latente attraverso la riduzione dell’alogenuro d’argento in argento metallico nero. A questo punto, era necessario realizzare il fissaggio, provvedendo attentamente alla rimozione degli alogenuri non colpiti dalla luce, poi al lavaggio per eliminare i piccoli residui dei prodotti chimici utilizzati e assicurare in questo modo la stabilità dell’immagine. Nuovamente si provvede all'eliminazione dell’acqua in eccesso, e dopo tutti questi passaggi la pellicola viene appesa ad asciugare su un filo con delle mollettine, in un ambiente privo di polvere e buio, per evitare contaminazione a causa dei materiali pancromatici della pellicola.


Non si sarebbe mai stancato di quella routine, fatta di gesti quotidiani continui e successivi, perché la soddisfazione che provava nel vedere il risultato di una stampa era immensa e lo appagava completamente, si trattava di un’emozione totalizzante. Era innamorato della fotografia. Immaginava, di aver visto posti lontani, aveva studiato le foto che aveva sviluppato come immagini di libri di geografia o guide turistiche e con gli occhi della mente aveva vissuto mille vite, pur senza muoversi mai. Teneva a quelle foto, in modo quasi morboso e in modo altrettanto morboso conservava sempre i negativi dei rullini che stampava. Non si sentiva solo, nonostante la mancanza di un amore, si sentiva bene e le sue foto gli bastavano. Erano figli, fratelli, amanti, una famiglia completa insomma.


Quella mattina, aveva un tremendo mal di testa, e come sempre quando aveva l’emicrania, anziché riposare, raddoppiava il carico di lavoro. Dose doppia anche di caffè e un po’ di musica  per rilassarsi come rimedio omeopatico e sciogliere la muscolatura. Non aveva un genere musicale preferito, ascoltava tutto ciò che passavano alla radio, certo non proprio tutto, aveva cura di sintonizzarsi su una diversa frequenza quando la musica non era più di suo gradimento. Cosi accese la radio, cominciando a sistemare il materiale da lavoro. All’inizio svogliatamente, ma poi con più cura e attenzione ai particolari,  iniziò il processo artistico dello sviluppo. Si scoprì più solerte di quanto avrebbe potuto predire, quel giorno. Doveva sviluppare le foto di un matrimonio, “I Kontrappali”. La loro unione era l’evento dell’anno per la comunità mondana senese, due ricche famiglie indiane che come da tradizione e convenzione sociale, univano i loro ricchi capitali. In effetti, i Kontrappali l’avevano corteggiato a lungo per ingaggiarlo, dapprima aveva opposto resistenza, si era finto coinvolto in un improrogabile impegno, non amava relazionarsi in tali circostanze, ma poi l’offerta era divenuta troppo ghiotta per arrogarsi il lusso di rifiutarla. D’altra parte era uno dei migliori fotografi della provincia, forse della regione, assicurava serietà, professionalità e puntualità; e non sempre le tre qualità coincidono in un fotografo. Accettava un solo lavoro alla volta, in modo tale da potersene occupare direttamente durante tutte le varie fasi di produzione, dalle foto allo sviluppo alla loro stampa.


 Sotto il lieve riflesso della luce inattinica della camera oscura, il suo viso appariva ancora più pallido ed emaciato e si scoprì molto diverso dall'idea che aveva di sé; si guardò allo specchio senza rimpianti. Man mano che l’immagine della pellicola prendeva corpo, scoprì qualcosa di strano nelle foto. Erano le foto di un matrimonio. Nell'immaginario comune, il matrimonio è un giorno felice, l’unione socialmente riconosciuta di due anime, la formazione di una nuova famiglia.  Eppure, l’immagine dei soggetti nella foto non era felice, quelle foto erano false. Per quanto autentica fosse la location, l’angolazione, la luce e tutto il resto, questi contorni svanivano davanti allo smarrimento dell’anima di fronte all'obbiettivo  Ricordava che durante il servizio fotografico, aveva chiamato i due sposi per renderli presenti, per “comporre” il loro servizio, cercando di far sembrare naturale quella che era la mera finzione di un servizio appositamente orchestrato; ma i suoi sforzi erano stati vani. Quella coppia di sposini sembrava una coppia di bambole imbalsamate e prive di sentimenti. Erano statici e infertili. I loro volti incerati e laccati, gli trasmettevano un senso di sfarzo e aridità, di opulenza e smarrimento contemporaneamente. Costretti a costruire un amore, sulla tomba di vecchi fuochi, nell'angoscia di essere incapaci a trovarsi. Lui rigido nel suo smoking, ripugnato al pensiero di dover soddisfare la sua donna, come gli antenati gli avevano insegnato a fare, indicando le statue dei templi di Khajuraho. Lei incapace di concedersi ad un amore, che non vuole e non ama, cerca con gli occhi lontano il giardiniere.


 In quel momento, ci fu un disturbo alla radio, che poi si sintonizzò su una nuova frequenza: “Io scriverò”. Non conosceva quella canzone. Non suonava male però. Il testo era disambiguo, chiaro, sincero; quasi un’esortazione a fare lo stesso, a leggere la vita non inseguendo alcuna ricerca, ma essendo la ricerca stessa, quella di star bene con sé stessi.  Finì di stampare le foto, il lavoro doveva essere pronto per l’indomani. Spense la radio e riordinò i materiali; pulì con cura il bancone con l’alcol e riversò i liquidi di sviluppo e fissaggio nelle rispettive taniche. Un’altra giornata volgeva al termine, o iniziava dipendeva dai punti di vista, la mezzanotte è in effetti l’inizio di un  nuovo giorno. Tutto è relativo. Magari ho interpretato male il senso delle foto del matrimonio, si disse, anche se era certo che il suo sesto senso non l’ingannava. Lui non era certo il tipo capace solo di chiedere come stai, lui scriveva sul mondo e sulle sue brutture con una finestre privilegiata sul cuore degli uomini, dalla sua camera oscura. Lui cerca un mondo diverso, dentro un poco d’universo, sentendosi un eroe a tempo perso del suo piccolo posto nel mondo. 
 

Nessun commento:

Posta un commento